Un recente rapporto commissionato da Greenpeace ha gettato luce su pratiche di greenwashing da parte di importanti aziende energetiche europee, evidenziando come l’energia verde rappresentasse appena il 7,3% degli investimenti totali delle aziende nel 2022, pari a 5,61 miliardi di sterline. Nel mirino di questa accusa si trova anche l’italiana Eni, insieme ad altre 11 aziende.

La denuncia di Greenpeace

Il gruppo ambientalista ha messo in luce che, nonostante le aziende abbiano enfatizzato l’utilizzo di energia rinnovabile nei loro bilanci annuali del 2022, i loro investimenti reali abbiano privilegiato i combustibili fossili. La critica si è fatta aspra e Kuba Gogolewski, responsabile delle campagne finanziarie di Greenpeace per l’Europa centrale e orientale, ha dichiarato che mentre il pianeta è sconvolto da eventi climatici estremi, queste compagnie petrolifere continuano ad alimentare la crisi climatica con le loro pratiche distruttive, rendendo vuote le loro dichiarazioni di decarbonizzazione e promuovendo in realtà il greenwashing.

Il rapporto, voluto da Greenpeace, ha confrontato la quantità di energia rinnovabile effettivamente prodotta dalle aziende (come eolica, solare, geotermica e idroelettrica) con la quantità di energia generata tramite la produzione di petrolio e gas.

I risultati rivelano che in media:

  • solo il 7,3% degli investimenti totali delle aziende è stato indirizzato all’energia verde (corrispondente a 5,61 miliardi di sterline),
  • ben il 92,7% è stato destinato alle attività legate ai combustibili fossili.

Oltre a ciò, il rapporto ha sollevato il fatto che pur essendo queste aziende impegnate pubblicamente a raggiungere zero emissioni nette entro il 2050,  molte di esse non hanno ancora sviluppato strategie chiare per raggiungere tale obiettivo. Invece, molte aziende prevedono di mantenere o persino aumentare la produzione di petrolio e gas almeno fino al 2030.

In risposta a queste accuse, Greenpeace ha richiesto ai governi europei di tassare i profitti delle aziende legate ai combustibili fossili per finanziare la transizione verso fonti a basso impatto ambientale. Inoltre, l’associazione ha sottolineato la necessità di regolamentazioni più rigorose per evitare il degrado ambientale e incentivare investimenti in infrastrutture verdi.

Le 12 aziende nel mirino

Le 12 aziende nel mirino includono BP, Shell, Eni, Equinor, Repsol, TotalEnergies, Omv, Pkn Orlen, Mol, Wintershall Dea, Petrol Group e Ina Croatia

Nel dettaglio, l’analisi di Greenpeace ha rivelato che Shell e BP hanno prodotto solo lo 0,02% e lo 0,17% di energia da fonti rinnovabili rispettivamente nel 2022. BP ha investito il 97% dei suoi fondi nei combustibili fossili, riducendo gli investimenti in energie rinnovabili rispetto all’anno precedente. Shell ha destinato il 91% degli investimenti ai combustibili fossili.

Le aziende sotto accusa hanno reagito alle accuse. BP ha dichiarato che il rapporto è inesatto e distorce la realtà degli investimenti e delle strategie aziendali. Shell ha invece sottolineato che ha destinato fino a 15 miliardi di dollari per investimenti nelle soluzioni a basse emissioni di carbonio fino al 2025.

 È sempre solo greenwashing?

Il greenwashing, pratica fuorviante adottata da numerose aziende per migliorare la propria reputazione ambientale e attirare i consumatori sensibili alla sostenibilità, rappresenta un problema sempre più rilevante. 

Nel 2022, ben 18 brand importanti sono stati coinvolti in casi di greenwashing. In Italia, questa pratica è soggetta a sanzioni da parte dello IAP (Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria) e dell’Antitrust ma, a quanto pare, risulta non essere ancora abbastanza. 

E quel che più comunemente viene indagato come pratica scorretta nei confronti della trasparenza, ovvero come una mera strategia per migliorare l’immagine aziendale ha radici molto più profonde. 

Quel che bisognerebbe ricordare quando si parla di greenwashing è che non è “solo” il “vendere” un’idea fintamente buonista e green di un brand o di una azienda ma, soprattutto, nascondere e insabbiare pratiche ancora più scorrette e dannose per l’intero ecosistema.